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Per inaugurare un nuovo modo di intendere le azioni a sostegno della terza età, cambiando al contempo il modo di guardarla e di intenderla, è prima di tutto necessario aver ben chiara la direzione da seguire. Per scegliere un percorso, più o meno facile, ma certamente sicuro, la bussola non può che essere rappresentata da una prima, approfondita, attività di ascolto e riflessione.

È per questo che, in occasione della chiusura della rassegna ‘L’Età della Saggezza’ – giunta ormai alla sua XXVI edizione – abbiamo voluto organizzare il convegno ‘Politiche Territoriali a Sostegno della Terza Età’, primo atto del progetto Eco@Transizioni Sociali che – grazie al contributo di Regione Lombardia – proverà nei prossimi 12 mesi a immaginare e implementare una nuova modalità di sostegno ad una Terza Età che esprime bisogni ben più ampi di quanto possiamo immaginare.

Una Terza Età che non può più essere solo affare di chi si occupa di non autosufficienza, semplicemente perché Terza Età oggi è anche la cosiddetta Silver Age, un’anzianità attiva e propositiva che può e deve essere risorsa di una comunità capace di riconoscerla, valorizzarla e integrarla, fornendo servizi via via di intensità sempre maggiore ma con un occhio sempre fisso alla dimensione sociale e relazionale e non solo a quella della cura sanitaria.

La cornice normativa: continuità o innovazione?

In un sistema che sta cercando di mutare e che è preso tra grandi paradigmi di cambiamento che premono dall’esterno, quello dei servizi e delle politiche rivolte alla Terza Età è – più di altri – sottoposto alla sfida dell’innovazione mantenendo una continuità necessaria. Per questo motivo, secondo il professor Marco Noli, docente della Facoltà di Scienze e Politiche Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, un punto centrale è sapersi orientare – per poi fare sintesi virtuosa – tra i diversi livelli normativi.

L’importanza delle norme, dei piani, dei programmi e delle riforme si esprime bene in questi punti:

  • Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che si dirige verso una progressiva introduzione dei LEPS (Livelli Essenziali delle Prestazioni in Ambito Sociale) con l’obiettivo di aumentare le prestazioni su base finanziaria e non monetaria;
  • Una forte attenzione posta verso il livello territoriale e, in particolare, con uno scarto positivo della domiciliarità delle cure;
  • La velocità di pensiero e decisione imposta dalle scadenze del PNRR che rischia di portare a scelte poco ponderate.

Guidati dall’occhio esperto dello studioso, ci si può accorgere come diversi strumenti normativi insistano sulla medesima area ma senza che – ancora – nei sia stata fatta sintesi programmatoria e operativa: la L. 328/2000 che fissa alcuni paletti nei Livelli Essenziali dei servizi; la Legge di Bilancio 2021 che impone un nuovo rapporto tra Assistenti Sociali e cittadini (1/500 ndr) e, infine, Legge, Decreti Legislativi e Decreti Legge che impongono metodi e processi importanti come la Valutazione Multidimensionale, la Presa in Carico, l’adozione del Progetto Personalizzato garantendo però misure economiche a supporto non pienamente adeguate. Poi il Fondo per le Politiche Sociali che inaugura i PUA (Punti Unici di Accesso), il Piano Nazionale Povertà e il Fondo Lotta alla Povertà, per non parlare della Missione 5 del PNRR che punta, ad esempio, alle dimissioni protette degli anziani non autosufficienti, al rafforzamento dei servizi domiciliari e alla realizzazione delle famose Case di Comunità.

Come avrete immaginato la complessità è alta ma, secondo il prof. Noli, il problema da affrontare si riduce, non certo semplicisticamente, nel reperire quel luogo o quello strumento in grado di fare sintesi fra linee di progettazione diverse, di intercettare e gestire linee di finanziamento diverse e, per di più con scadenze diverse.

Per il Docente del Dipartimento di Sociologia non vi è dubbio che l’ambito della ricomposizione è quello Distrettuale perché, concretamente, è l’unico in cui si incontrano la programmazione sanitaria, socio sanitaria e sociale di uno specifico territorio, di cui sono noti i bisogni e le strategie di intervento.

Concretamente poi, sempre nella visione di Noli, sono le Case di Comunità il punto fisico che dovrebbe rappresentare il perno e il fulcro di questa nuova azione programmatoria e, allo stesso tempo, erogativa: luoghi con una missione chiara, ovvero quella della prevenzione, della promozione della salute (che non coincide affatto con sanità) e della presa in carico della comunità, con tutte le sue risorse formali e informali. Attenzione però, occorre guardarsi da un’insidia posta all’interno del PNRR, ovvero l’accento sulle strutture a scapito del potenziamento del personale. Ecco quindi che la programmazione va articolata su due piani: raggiungere sì la quella articolata sul triennio, ma al contempo realizzare innovazione sociale che sia trasformativa e sostenibile nel tempo.

In conclusione, lo studioso milanese si chiede e ci chiede: Come passare da un welfare “on demand “ad un welfare di iniziativa, proattivo e di connessione nelle Case di Comunità? Noli, seguendo il pensiero di Francesco Longo, suggerisce che le Case di Comunità abbiano 3 vocazioni possibili: Case della Salute, Case Socio Sanitarie Integrate e Case Della Comunità, dove – in quest’ultima funzione – possano trovare spazio le risorse messe a disposizione dalla rete formale e informale.

La programmazione 2021-23 del Piano di Zona Cremasco

Molti dei temi toccati da Noli sono stati illustrati e ripresi da Francesco Iacchetti, Coordinatore dell’Ufficio di Piano del Comune di Crema. Ad esempio, il documento guida della politica sociale del Distretto Cremasco contiene già obiettivi molto vicini a quelli a cui è giunta la conclusione dello stesso Noli: la costruzione di un welfare territoriale orientato al cittadino; Valutazione Multidimensionale e Presa in Carico Integrata; approcci trasversali alla complessità, integrando povertà ed emarginazione, politiche attive per il lavoro, lavoro di comunità e di rete e, infine, integrazione socio sanitaria.

Uno per tutti, il tema della domiciliarità dell’assistenza e dell’intervento a favore dell’anziano si concretizza – al di là della già citata Valutazione Multidimensionale e della Presa in Carico Integrata – nella prospettiva progettuale della costruzione di piani e soluzioni disegnate intorno al reale bisogno del singolo e della sua famiglia, dove al centro trovano spazio parole chiave come prossimità, sistema, caregiver, assistenti famigliari, accesso.

La Domiciliarità nel sistema organizzativo cremasco

A livello di sistema organizzativo delle istituzioni predisposte al governo e all’erogazione della cura, ATS e ASST, secondo il dr. Diego Maltagliati, Direttore Socio Sanitario della ASST di Crema, la sfida è quella di migliorare ancora di più i concetti e al cultura dell’integrazione e della presa in carico, un vero e proprio percorso culturale che deve compiersi per dare piena attuazione alle tante riforme che interessano il sistema lombardo.

Secondo Maltagliati la sfida sta nel:

  • rimappare i processi interni e nell’attribuire ai componenti dell’organizzazione nuove funzioni accanto a quelle preesistenti;
  • riposizionare l’Azienda rispetto agli altri attori del sistema , nel caso dell’ASST con compiti non solo di erogazione, ma anche di regia di governance a livello del suo territorio di riferimento;
  • contribuire a ridisegnare, e successivamente nel gestire, nuove reti e nuovi percorsi, senza ritenersi soggetti avulsi dagli stessi, ma parte centrale ed integrante di un unico sistema socio sanitario e sociale.

Per quanto riguarda poi la Presa in Carico Integrata, essa puggia sia sulla premessa della differenziazione dei bisogni in relazione alle persone, sia sulla capacità di agire contemporaneamente su sfere diverse di un bisogno che si presenta sempre più complesso: ecco che allora i servizi non possono che diventare interventi integrati su base sistemica, cioè differenti attività svolte in continuità per rispondere a bisogni di salute e ad altri bisogni della persona (aiuto personale, integrazione al reddito, altri bisogni collegati all’età e alle funzioni svolte dalla persona)

Se queste sono le premesse, una prima conclusione è quella per cui il baricentro della cura deve necessariamente spostarsi dal centro alla periferia, dall’ospedale ai luoghi diffusi della cura. Se il primo è certamente più rassicurante, nel tempo ha messo in luce forti criticità.

Favorire questo disegno significa quindi:

  • favorire i sistemi di rete sul territorio;
  • prevedere la coincidenza territoriale tra Zone/Ambiti Sociali e Distretti Sanitari;
  • promuovere un ruolo attivo delle Conferenze dei Sindaci per favorire l’integrazione nella programmazione e negli accordi interistituzionali;
  • regolare il ruolo del Terzo Settore per la programmazione e gestione dei servizi;
  • prevedere organismi di partecipazione dei cittadini per stimolare l’integrazione;
  • assumere come obiettivi per lo sviluppo locale la salute e l’offerta dei servizi sociali;
  • favorire Associazioni e Consorzi Intercomunali per un dialogo tra Distretto e Ambito Sociale;
  • fissare le risorse finanziarie con vincolo alla programmazione condivisa;
  • facilitare l’istituzione dei Punti Unici di Accesso (PUA) per gli orientamenti e le risposte sociosanitarie ed il loro collegamento/integrazione con le Centrali Operative Territoriali (COT) per i percorsi e le prestazioni più appropriate;
  • prevedere collegamenti stabili per le fragilità e la cronicità tra medicina generale e servizi sociosanitari e sociali.


Professioni di cura: quali baricentri ci possono servire oggi?

La conclusione degli interventi da parte dei relatori è stata affidata al prof. Roberto Lusardi, sociologo dell’Università di Bergamo, che ha condotto l’analisi e la riflessione sul contesto sociale che chiede di confrontarsi con sfide inedite, prima fra tutte quella di un ‘grande salto’, vale a dire un cambiamento di portata storica che l’umanità non aveva visto accadere con tanta velocità negli ultimi secoli.

Se, infatti, nel secondo dopoguerra il welfare nasce per rispondere in maniera universale a bisogni omogenei, negli ultimi 70 anni la società è radicalmente cambiata in ogni suo aspetto: sono cambiati gli stili di vita, la demografia, le speranze, i timori, i bisogni così come le risorse, personali e collettive. La ‘tradizione’ è entrata in una crisi profonda perché è l’innovazione tecnico scientifica a guidare il cambiamento e lo fa ad una velocità tale che i repertori consolidati non funzionano più, mentre quelli nuovi sono scarsi e instabili, con il risultato che “il mondo è diventato un laboratorio a cielo aperto” (Latour).

Per Lusardi, allora, il futuro delle professioni della cura sta in quattro parole chiave, quattro competenze fondamentali che potranno fare la differenza:

  1. Riflessività, ovvero la capacità di pensarsi impegnati in un processo continuo di autoeducazione, nel quale anche l’imprevisto e l’errore divengono occasioni di scoperta e di riposizionamento rispetto alle premesse precedenti;
  2. Ibridazione, una competenza che Emerge quando principi di matrice tecnico-professionale e manageriale si contaminano su valori, modalità di coordinamento delle attività e processi decisionali. Essa consente di reinterpretare, in chiave critica o adattiva, logiche di azione manageriale all’interno di professionalità tradizionali;
  3. Collaborazione, intesa come fine dell’organizzazione, non come un semplice mezzo;
  4. Intesa come pratica sociale: qualcosa che accade o può accadere durante l’agire quotidiano e nella quale occorre impegnarsi affinché si continui a realizzare;
  5. Sense-Making, ovvero la capacità di costruire cornici di senso condivise che riescano a tenere insieme linguaggi, saperi e competenze in una visione valoriale condivisa, senza mortificare le specificità e le differenze personali.