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Cammino, mi fermo e nulla sarà più come prima

I ricordi di quella mattina di dicembre sono ancora confusi e Federica li ha ricostruiti piano piano, anche con l’aiuto di chi era presenza a quell’angolo di strada. Faceva freddo, bavero alzato e mascherina ben indossata che dava la sensazione di un po’ di calore.

Mentre camminava lungo il bordo della strada Federica si è accorta del furgone che stava arrivando. Prima ha rallentato e poi si è fermata in prossimità di uno stretto incrocio in modo da lasciargli lo spazio per passare. Purtroppo, il conducente ha preso la curva troppo stretta e ha investito Federica, ignara e incolpevole, schiacciandola prima contro il muro e poi investendo il suo corpo.

Prima l’ambulanza, poi l’arrivo all’ospedale di Monza dove le sono state prestate le cure di emergenza viste le condizioni molto critiche. Come per molti politraumatizzati anche per Federica i medici hanno stabilito ben 4 settimane di coma farmacologico per dare spazio e tempo al suo corpo di reagire alle cure e riprendersi. Inutile dire che gli interventi chirurgici sono stati molti e delicati.

Il coma, gli interventi e quei demoni nella testa

Da Monza viene trasferita al Maggiore di Crema dove, oltre che con le ferite, Federica deve fare i conti anche con i postumi del coma che la lasciano in preda alla confusione, alle allucinazioni e ad un soffocante stato persecutorio, tutto aggravato dall’impossibilità di comunicare a causa della tracheotomia. Inoltre, in tempo di COVID, Federica deve affrontare tutto questo da sola, senza la vicinanza e le carezze del marito e dei figli: solitudine e impotenza sono le parole che, confida, meglio descrivono quelle lunghe settimane.

Dal Kennedy riparte la voglia di tornare

Le sue condizioni migliorano e, quasi a primavera, dal Maggiore viene trasferita al reparto di cure intermedie della Fondazione Benefattori Cremaschi, in quello che con affetto tutti chiamano il Kennedy. Federica, pur essendo ancora immobilizzata, vive questo passaggio come “una liberazione” perché finalmente, ci dice lei stessa, “vedevo un po’ di luce”. Non è ancora il tempo della discesa: dopo pochi giorni e dopo i primi tentativi di mobilizzazione, fisiatri e fisioterapisti si accorgono che qualcosa non funziona e, dopo un consulto, Federica viene nuovamente condotta in ospedale per un altro intervento chirurgico che rinsaldi viti e placche che hanno contribuito a ricostruire il suo bacino.

Dopo l’applicazione di una protesi all’anca e una al femore, Federica può rientrare al Kennedy e riprendere la sua battaglia per tornare a muoversi in autonomia, proprio come in quella fredda mattina di dicembre. Sono 3 mesi di lavoro impegnativo, intenso sotto il profilo psicofisico ma che, grazie ai “fisioterapisti molto professionali” e a un terapista occupazionale che “mi ha insegnato di nuovo a fare tutte quelle azioni della quotidianità che non ero più in grado di fare da sola”.

I fili dorati e il verde delle foglie d’estate

La pandemia, come in ospedale, non ha aiutato nemmeno qui: nessun contatto diretto con famigliari e ‘compagni’ di reparto. Fortunatamente però, Federica e le sue compagne di stanza hanno stretto un forte legame di amicizia e di sostegno reciproco, mentre famigliari e amici anche a distanza sono stati “fili d’oro che hanno intessuto un cuscino di sostegno”.

Dopo un lungo lavoro di équipe che Federica ha seguito con fiducia, oggi vive una “nuova vita” nella sua casa: ora può salire le scale senza ausili e prendersi cura del suo giardino ma, soprattutto, è tornata ad impegnarsi nel sociale con uno sguardo nuovo e una nuova consapevolezza.