Nessuno, specie se giovane e in salute, pensa a cosa vorrebbe, per sé o i propri cari, quando la vita andrà spegnendosi. Solitamente, arrivati a quel punto, il desiderio che emerge è quello di avere “più tempo”: per sistemare le questioni burocratiche, parlare con la famiglia, dire addio.
La costante misura del tempo, all’Hospice della Fondazione Benefattori Cremaschi è tangibile, non in durata, ma nella sua accezione qualitativa. “Non abbiamo la possibilità di guarire, ma possiamo curare”. È questo il mantra che muove il lavoro di Chiara Soldati, infermiera e parte del reparto dal 2006, quando è stato inaugurato. Lei e tutti i componenti dell’equipe multidisciplinare – medici, terapisti, infermieri e psicologi – hanno fatto della “cura” un’autentica missione. “Ho redatto la mia tesi di laurea sul fine-vita, perché fin dal mio ingresso in Università ho capito che più che la parte tecnica della professione, ero richiamata dal lato umano”.
Accompagnare in Hospice, ovvero “insieme con”
Accompagnare, ossia “insieme con”. Con il paziente, con la sua famiglia. Perché all’Hospice non si prende in carico una sola persona, ma interi nuclei formati da figli, nipoti, fratelli; e con loro il bagaglio di paure e, le pur poche, speranze. Il reparto di degenza è specializzato nella terapia del dolore e nella gestione dei terminali, “È un dolore che va accolto – racconta Chiara – Non è pensabile che si accetti la fine, la perdita. Noi però possiamo esserci, a 360°, anche solo stringendo la mano, rispettando un lungo silenzio o ascoltando chi ha bisogno di sfogare la rabbia”.
I posti letto sono 14; 8 gli infermieri che si alternano su tre turni per prendere in carico “le persone, non le patologie. Abbiamo seguito corsi di formazione in itinere per migliorare la gestione delicata del reparto, apprendendo che non è possibile, in questi corridoi, standardizzare l’approccio, banalmente anche solo per i pasti”. All’Hospice FBC chi ha voglia di un gelato o del caffelatte, viene accontentato: “Cerchiamo di coccolarli, accudirli, farli sentire a casa. Questa è la presa in carico della terminalità: un approccio famigliare e multidisciplinare, che vada oltre il solo accompagnamento al fine vita e che coinvolge sì la parte medica, ma anche e soprattutto quella emotiva e psicologica”.
Dal più piccolo bisogno alla realizzazione dell’evidenza, il personale è presente: “Alcuni sono consapevoli del proprio quadro clinico, altri si aggrappano a speranze che spesso, farmacologicamente, non esistono. In entrambi i casi il paziente va assecondato – prosegue Chiara – Più complesso è far comprendere ai famigliari la gravità della situazione e gestire, con l’aiuto di personale specializzato, il distacco con il parente terminale. Più complicato è invece far comprendere ai parenti che non devono impedire alla persona ricoverata di dire loro addio. Spesso i pazienti sono pronti ad andarsene, specie i grandi anziani, ma i famigliari no”.
La cura ogni giorno, anche per settimane
Accompagnare, “insieme con”, giorno per giorno, in una degenza che può variare la propria durata da qualche giorno a mesi: “L’Hospice non è sinonimo di morte. Abbiamo avuto pazienti che, in seguito ad una corretta terapia del dolore, sono tornati a casa e hanno potuto vivere la propria quotidianità fino alla fine. Chi invece resta in reparto trova un ambiente dove cerchiamo di riempire di vita piena il tempo che resta”.
Qualche battuta scambiata con ospiti e famigliari, alcune passioni che riescono ad essere coltivate, come lettura o pittura, esattamente come accade in ogni altro reparto. “È impossibile non farsi carico emotivamente di quanto accade qui. Questo lavoro, però, mi ha permesso di apprezzare l’immensa fortuna della salute, di apprezzare senza dare per scontate le tante piccole cose della vita”.
La misura del tempo, in Hospice, non è legata alla quantità, alla durata. Ma alla qualità del fine vita: terminalità significa non arrivare ad una guarigione, ma la cura è sempre possibile.